Un una mattina di primavera del 1955, una coppia di addetti stampa accolse una folla di giornalisti in una maestosa sala del campus dell’Università del Michigan. Gli ufficiali avevano una notizia scottante: una sperimentazione clinica del tanto atteso vaccino contro la poliomielite aveva dimostrato che era sicuro ed efficace. I giornalisti rischiarono di sccontrarsi nella loro corsa per diffondere la notizia. Una volta che lo fecero, le campane della chiesa suonarono e la gente corse in strada per applaudire.
Nel mezzo della nostra attuale pandemia, la speranza collettiva per un vaccino è stata altrettanto palpabile e regolarmente rafforzata, come lo è stata con le notizie sui risultati promettenti di un piccolo test del vaccino contro il coronavirus. Il massimo esperto di malattie infettive del Governo Federale, il Dottor Anthony Fauci, affermò che “il vero punto di svolta contro il coronavirus sarebbe stato un vaccino”. I conduttori televisivi e gli esperti affermanoro che quell obiettivo era a portata di mano perché in passato avevamo sconfitto killer infettivi, come la poliomielite, con i vaccini.
La professoressa Elena Conis di Berkeley raccomandò di imparare dalla storia dei vaccini precedenti nell’implementareun vaccino contro il coronavirus. Credito immagine: CDC/Wikimedia Commons
Ma l’esperienza americana con la poliomielite avrebbe dovuto farci riflettere, non sperare. Il primo vaccino efficace contro la poliomielite è stato il risultato di decenni di ricerca e test. Una volta completamente testato, è stato approvato a una velocità record. Poi ci sono stati problemi di produzione pericolosi per la vita. Sono seguiti problemi di distribuzione. Sono scoppiate lotte politiche. Dopo diversi anni, sono stati vaccinati abbastanza americani che i casi sono crollati, ma sono persistiti nelle comunità povere per oltre un decennio. La storia completa della poliomielite avrebbe dovuto renderci diffidenti nei confronti delle promesse che presto il coronavirus sarebbe stato sotto controllo grazie ad un vaccino.
La prima epidemia di poliomielite negli Stati Uniti colpì il Vermont nel 1894, uccidendo 18 persone e lasciandone 58 permanentemente paralizzate. Fu solo l’inizio. Nei decenni successivi, le epidemie di caldo divennero comuni, colpendo le comunità un anno e risparmiandole l’anno successivo, a volte solo per tornare più tardi con maggiore forza. Un’epidemia a New York City uccise più di 100 persone nel 1907. Nel 1916, la poliomielite tornò e ne uccise 6.000. La malattia colpiva principalmente i bambini. Poteva uccidere fino al 25 percento dei colpiti. E lasciò molti paralizzati, condannandone alcuni a vivere in un polmone d’acciaio .
Gli scienziati sapevano che la poliomielite era causata da un virus, ma non sapevano come si diffondeva. (Ora sappiamo che si diffondeva tramite il consumo di cibo o acqua contaminati dal virus nelle feci). Allora, come oggi, l’unico modo per restare al sicuro era non essere infettati. Le città con imcasi chiusero cinema, piscine, parchi di divertimento e campi estivi. Annullarono fiere e festival programmati da tempo. I genitori tenevano i figli vicino a casa. Chi poteva permetterselo fuggì in campagna. Tuttavia, i casi aumentarono. Tra i primi tre vaccini contro la poliomielite sviluppati negli anni ’30, due si rivelarono inefficaci, un altro mortale.
Infine, nell’aprile del 1954, un promettente vaccino, sviluppato dal laboratorio di Jonas Salk presso l’Università di Pittsburgh, entrò in un ampio trial clinico della durata di un anno. Il giorno del 1955 in cui gli addetti stampa accolsero i giornalisti ad Ann Arbor, condivisero i risultati: il vaccino, contenente poliovirus inattivato, era sicuro. Era anche efficace all’80-90 percento nel prevenire la poliomielite.
Il Governo Federale concesse la licenza per il vaccino nel giro di poche ore. I produttori si affrettarono a produrlo. Una fondazione promise di acquistare i primi 9 milioni di dollari e di fornirli ai bambini di prima e seconda elementare della nazione. Fu avviata una campagna nazionale.
Ma meno di un mese dopo, lo sforzo si fermò. I funzionari segnalarono sei casi di poliomielite collegati a un vaccino prodotto da Cutter Laboratories a Berkeley, in California. Il chirurgo generale chiese a Cutter di ritirarne i lotti. I National Institutes of Health chiesero a tutti i produttori di sospendere la produzione finché non avessero rispettato i nuovi standard di sicurezza. Gli investigatori federali scoprirono che Cutter non era riuscita a uccidere completamente il virus in alcuni lotti di vaccino. I vaccini difettosi hanno causarono più di 200 casi di poliomielite e 11 decessi.
Il programma vaccinale riprese in parte due mesi dopo, ma segui’ ìl caos. Con il vaccino in carenza, si diffusero voci di mercati neri e dottori senza scrupoli che applicavano tariffe esorbitanti. Un produttore di vaccini pianificò di vaccinare prima i figli dei suoi dipendenti, e poi inviò una lettera agli azionisti promettendo anche ai loro figli e nipoti un accesso prioritario.
Gli Stati chiesero al Governo Federale di creare un programma per garantire un’equa distribuzione. Un disegno di legge del Senato propose di rendere il vaccino gratuito per tutti i minorenni. Un disegno di legge della Camera propose vaccini gratuiti solo per i bambini bisognosi; secondo i resoconti dei giornali dell’epoca, la discussione del disegno di legge scatenò una “litigiosa furia” che costrinse il presidente a indire una pausa di “raffreddamento”. Il Polio Vaccination Assistance Act da 30 milioni di dollari che il presidente Dwight Eisenhower firmò quell’agosto fu un compromesso che sostanzialmente lasciò che gli Stati decidessero da soli.
I casi di poliomielite diminuirono drasticamente negli anni successivi. Poi nel 1958, quando l’attenzione nazionale cominciò a calare, i casi tornarono a salire, tra i non vaccinati. I casi di poliomielite si concentrarono nelle aree urbane, in gran parte tra le persone povere di colore con un accesso limitato all’assistenza sanitaria. Il “modello di poliomielite” degli Stati, notarono gli epidemiologi governativi, era diventato “abbastanza diverso da quello generalmente visto in passato”.
Tre anni dopo, il Governo Federale approvò un vaccino orale contro la poliomielite, sviluppato dal laboratorio di Albert Sabin a Cincinnati, contenente un virus indebolito, non inattivato. Entro la fine di quell’anno, le infezioni da poliomielite erano diminuite del 90 percento rispetto ai livelli del 1955. Nel 1979, il paese registrò il suo ultimo caso trasmesso dalla comunità.
Oggi, dopo decenni di campagna di vaccinazione globale, la poliomielite persiste solo in tre paesi. La battaglia contro la malattia è stata una marcia lunga un secolo. E ha richiesto un impegno costante per continuare la vaccinazione contro la poliomielite, un impegno ora compromesso poiché gli sforzi globali per la vaccinazione contro la poliomielite sono stati sospesi per rallentare la diffusione del coronavirus.
Certo, ci sono innumerevoli differenze tra la lotta contro il coronavirus e la lotta di tanto tempo fa contro la poliomielite. La capacità globale di ricerca e sviluppo di vaccini è molto maggiore di quella degli anni ’50. Anche i protocolli di approvazione dei farmaci e di sicurezza della produzione sono stati perfezionati da allora. Già, a pochi mesi dall’attuale pandemia, ci sono molti più vaccini in fase di sviluppo contro il coronavirus di quanti ce ne siano mai stati contro la poliomielite.
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Ma le soglie normative che abbiamo impiegato decenni a mettere in atto vengono spazzate via per accelerare tale sviluppo. E alcuni dei vaccini contro il coronavirus in fase di sviluppo “a velocità fulminea” — da parte di nuove aziende biotech, laboratori universitari e noti giganti farmaceutici — sono tanto nuovi quanto lo era il primo vaccino contro la poliomielite nel 1955.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul New York Times il 20 maggio 2020 ed è stato scritto in collaborazione da Elena Conis, professoressa presso la Graduate School of Journalism dell’Università della California a Berkeley, Michael McCoyd, dottorando in informatica a Berkeley, e Jessie A. Moravek, anch’essa dottoranda in scienze ambientali, politica e gestione a Berkeley.
Fonte: UC Berkeley