Immagine, Credit: CC0 Public Domain.
L’ultima cosa che qualcuno desidera durante un soggiorno in Ospedale è un’infezione acquisita in ospedale. Le infezioni nosocomiali, come vengono chiamate, aumento man mano che più agenti patogeni diventano resistenti ai farmaci attualmente disponibili. Un patogeno è in cima alla lista come uno dei più comuni, uno dei più frequentemente fatali e uno dei più difficili da trattare, è l’ Acinetobacter baumannii.
Kumar Venkitanarayanan, Decano associato per la ricerca e gli studi universitari e Professore al College of Agriculture, Health and Natural Resources e il suo team hanno recentemente pubblicato una ricerca sulla rivista Wound Medicine che spiega in dettaglio lo studio.
A. baumannii è incluso nell’elenco ESKAPE dell’Organizzazione mondiale della sanità, una raccolta di batteri che stanno diventando sempre più resistenti agli antibiotici. Con la resistenza in aumento, la ricerca sulle terapie alternative è fondamentale e in alcuni casi il ritorno alle vecchie terapie si sta dimostrando efficace.
“Le infezioni da A. baumannii sono particolarmente difficili da trattare poiché i batteri possiedono un arsenale di misure per acquisire resistenza agli antibiotici”, afferma Venkitanarayanan. I batteri sono anche in grado di formare biofilm che fortificano l’infezione contro gli antibiotici e offrono loro una maggiore possibilità di diffusione, specialmente negli ambienti ospedalieri.
“A. baumannii è principalmente un patogeno nosocomiale che colpisce in particolare le persone con il sistema immunitario compromesso, i giovanissimi, i molto anziani”, afferma Venkitanarayanan. A. baumannii può infettare le ferite e portare a infezioni della pelle e dei tessuti molli particolarmente persistenti e alla fine diffondersi, causando infezioni sistemiche difficili e talvolta impossibili da trattare come polmonite o infezioni del tratto urinario.
Anziché adottare l’approccio per lo sviluppo di nuovi antibiotici, il gruppo di ricerca di Venkitanarayanan cerca tra i metodi di trattamento più vecchi per trovare nuove strategie.
“Ai vecchi tempi, i metalli venivano usati come trattamenti antimicrobici, quindi abbiamo deciso di rivisitarli per vedere se potevano essere applicati ai trattamenti moderni”, afferma Venkitanarayanan.
Metalli e metalloidi sono da tempo riconosciuti per le loro qualità disinfettanti e come tali sono stati utilizzati nella conservazione degli alimenti, nella disinfezione dell’acqua, nei prodotti per la pulizia e nel trattamento delle ferite. I ricercatori hanno esaminato i metalli per la loro efficacia antimicrobica e hanno scoperto che il selenio è molto promettente. Oltre ai potenziali usi antimicrobici, il selenio è anche un micronutriente importante nel funzionamento del sistema immunitario, nella sintesi dell’acido nucleico e in altri processi fisiologici.
I ricercatori hanno prima determinato la quantità minima di selenio necessaria per inibire la virulenza dei batteri o la capacità di causare malattie. “Con questo approccio”, afferma Venkitanarayanan “i batteri sono ancora in grado di crescere, ma non sono in grado di infettare l’ospite nel modo più efficace”.
Successivamente, il team ha simulato una ferita coltivando cellule e fluidi della ferita in una matrice modello. Il modello di matrice della ferita è stato quindi inoculato con i batteri, con o senza la quantità di selenio necessaria per inibire la virulenza di A. baumannii.
I biofilm trattati con o senza selenio, sono stati osservati al microscopio elettronico a scansione e l’analisi del DNA è stata eseguita per valutare se si sono verificati cambiamenti genetici dopo l’esposizione al selenio.
I ricercatori hanno anche eseguito test per determinare l’efficacia con cui i batteri potrebbero aderire e invadere le cellule della pelle sia con che senza selenio presente.
I batteri possono utilizzare diverse strategie per colonizzare un ospite e sembra che il selenio abbia delle proprietà per smantellare strategie multiple di A. baumannii
Ciò che i ricercatori hanno scoperto è che nelle colture esposte al selenio, l’architettura del biofilm è stata significativamente ridotta, lasciando il biofilm diffuso e scomposto. Di conseguenza, l’analisi genetica post-trattamento ha rivelato una significativa down-regolation dei geni associati alla produzione di biofilm. Il selenio ha anche ridotto la capacità batterica di aderire e invadere le cellule della pelle.
“Non ci sono dati chiari su come funziona il selenio. Sembra che ci sia tossicità contro la membrana esterna dei batteri e potrebbe anche causare tossicità contro il DNA, potenzialmente nei geni coinvolti nella creazione di biofilm“, afferma Venkitanarayanan.
Studiare questi esatti meccanismi sono i prossimi passi che i ricercatori faranno, avvicinandosi così alle applicazioni cliniche.
Anche se al momento non si conoscono gli esatti meccanismi di azione del selenio, Venkitanarayanan afferma che è importante esplorare questo tipo di opzioni. Il suo gruppo ha esplorato l’efficacia del selenio nel trattamento di altre infezioni come l’Escherichia coli enteroemorragica (EHEC) e il Clostridium difficile (C. diff).
Fonte, Wound Medicine (2019)