Una candid camera che gira in rete pone il problema della provenienza del nostro cibo. Meglio vegetariani o carnivori consapevoli?
Vorrei condividere un video che gira su Youtube e che è molto ripreso su Facebook.
Una sorta di candid camera brasiliana, divertente volendo, ma molto seria.
Il tema è mangiare o meno la carne. Certo, prevengo l’obiezione, c’è chi non ha questo problema perché non ha, semplicemente, da mangiare. Ma io sto parlando di noi che, per quanto poveri o impoveriti, la fettina, o la salsiccia, non ce la facciamo mancare. Senza un senso di colpa al mondo e senza per questo perdere la nostra tenerezza verso i cuccioli, le mucche con i grandi occhi dolci, i pulcini, i pesciolini rossi, ecc. ecc. Orripilandoci all’idea di mangiare cani e gatti, rabbrividendo per la macellazione islamica. Ecc. ecc. Faremmo lo stesso se vedessimo, con i nostri occhi, l’animale macellato? O ancora meglio, faremmo lo stesso se l’animale dovessimo ucciderlo noi? Negli Stati Uniti è nata da qualche tempo una scuola di pensiero che “impone” proprio questa regola a chi vuole essere carnivoro: allevare e quindi uccidere personalmente l’animale da cui si trarrà la carne. Non è un invito al vegetarianesimo, ma alla responsabilità. Chi mangerà la braciola, la bistecca, il brasato, avrà visto e compiuto di persona gli atti che questa scelta comporta. Vezzo da gente ricca, perché chi ha lo spazio, il tempo, la possibilità di allevare e macellare bestiame? Forse. Ma il tema resta valido. Contadini e cacciatori a parte, le persone comuni, che vivono in città e la carne la trovano al supermercato, hanno perso ogni contatto con l’animale da cui il loro acquisto proviene. Le fettine, igieniche, sigillate, con appena quel tanto di sangue che basta a non renderle stoppose, non hanno occhi, nè code, nè zampe, non guardano impaurite, non hanno voce. Non sono vegetariana. E talvolta trovo fastidioso e snob chi chiede con aria schifata piatti senza carne, e rumina insalata mentre gli addentano braciole. Però, so che se dovessi occuparmi io della faccenda preferirei evitare. E so come si chiama questo: è ipocrisia.
Carla Reschia – “La Stampa”